22/02/2021

Nuna Lini – Recensione a C. Cimino, Tra la vita e la morte, Manifestolibri, 2020

“C’è qualcosa nell’essere umano e nella collettività che egli (Freud) attribuisce alla distruttività in quanto rappresentante della pulsione di morte, che sfugge sempre al controllo, un “resto” con cui avere a che fare.”

Basterebbe questa frase, fra le tante, a indicare come l’orizzonte di ricerca di Cristiana Cimino non includa

formule consolatorie e tranquillizzanti come le tante che liquidano sbrigativamente la questione ipotizzando facili vittorie di un Io troppo padrone in casa propria su quella pulsione di morte considerata come il cedimento malinconico di un uomo anziano e provato dai lutti alle angosce dell’età avanzata.

Il tema della pulsione di morte, insieme e correlativamente a quello della femminilità, è senz’altro IL TEMA del libro, ma la capacità dell’autrice consiste nel proporlo non a partire dalla formalizzazione degli ultimi e definitivi enunciati freudiani (quelli, per intenderci che tanto spaventarono e che continuano a spaventare la comunità analitica tanto da andare così frequentemente soggetti alle più varie forme di rimozione e/o travisamento) quanto        piuttosto ricercandone le tracce e le origini in un movimento di risalita lungo il percorso dell’intero

pensiero freudiano nel suo procedere tutt’altro che lineare quando non persino contradditorio.

E’  infatti  già  nei  primi  testi  di  Freud  che  l’autrice  individua  gli  elementi  che  segnalano  la  presenza  di quell’irriducibile resto che contrassegna, e forse costituisce, l’essenza dello psichismo umano. Cimino ne rinviene il manifestarsi nel pensiero e nella persona stessa di Freud, sia che si tratti delle riflessioni sull’angoscia di morte che a più riprese e con differenti specificazioni ed esiti segnano il suo pensiero, sia che il riferimento sia invece alle vicende dell’uomo Freud     sorpreso e spesso spiazzato da esperienze che motivano riflessioni

che solitamente esitano in un rilancio problematico  della questione piuttosto che in una sua definitiva

composizione.

L’autrice ci guida così attraverso le considerazioni che l’esplodere della distruttività umana quale si manifesta nel primo conflitto mondiale, ispira allo studioso, inizialmente ancora confidente nel potere della ragione di contenere  e  indirizzare  al  bene  l’animo  umano  ma  via  via  sempre  più  amareggiato  e  disilluso  dalla constatazione di come il lume della ragione nulla possa a fronte della forza travolgente della pulsione ove essa giunga a liberarsi dai fragili vincoli della civiltà.

Ed è nel medesimo testo, peraltro, come Cimino sottolinea, che un Freud quasi ispirato coglie nelle vicissitudini della  dialettica  amore-odio,  intesa  come  copresenza  nell’animo  umano  sia  di  una  forza  di  legame,  sia dell’inevitabile odio (anch’esso pulsionale) verso                                                                      l’oggetto, fonte di stimoli e quindi disturbante , la forza

della  tensione  che    verso  l’oggetto  ci  spinge,  ma  anche  l’inesorabile  tendenza  dello  psichismo  verso

l’azzeramento di ogni forma di eccitazione.

Su questa stessa linea di pensiero si colloca la concezione che emerge dal testo secondo cui “nella psiche tutto è imperituro e dunque passibile di ritorno” e vana è dunque l’ambizione freudiana di riuscire a sottrarre le motivazioni logiche e razionali alle istanze pulsionali.                                                                       E’ questa, nella lettura di    Cimino, “l’aporia che,

radicalizzata, costituirà il nucleo del testamento freudiano”.

Ecco che infine, attraverso la resa all’evidenza, messa in luce dal conflitto, del prevalere finale della distruttività umana sulle istanze della ragione e della civiltà, il tema della morte si istalla definitivamente nel pensiero di







Freud e ne ispirerà gli interrogativi e gli esiti più radicali.

L’originalità dell’approccio di Cristiana Cimino, tuttavia, consiste nel seguire non soltanto lo sviluppo del pensiero freudiano nella sua forma per così dire manifesta, ma la traccia generativa di quel pensiero, il percorso  anche  esistenziale  che  l’uomo  Freud  compie  e  descrive  nei  dettagli  con  lo  sguardo  lucido dell’illuminista anche laddove non arriva a coglierne il significato ultimo.

Vengono così rivisitati, alla luce della domanda sulla necessità di soggettivazione della morte che il testo del 15 ha aperto, episodi della biografia freudiana che aprono a letture e interpretazioni che vanno “aldilà” di quelle immediate, e forse rassicuranti che il fondatore stesso ha indicato e proposto; laddove, come nell’episodio del disturbo di memoria sull’Acropoli Freud si affanna a protestare la sua estraneità al sentimento oceanico, Cimino ci propone di intravedere, anche alla luce della lettura di Elvio Fachinelli che parla in proposito di una gioia immensa che oltrepassa il godimento, un “inquietante, intollerabile vissuto di gioia legato al fuggevole contatto con il territorio proibito”, quello materno, ispiratore di un “desiderio preistorico che solo può colmare una fame mai saziata”. Ma l’acume dell’autrice ci consente di osservare come dietro a quelle che potremmo definire operazioni difensive da parte dello stesso Freud (l’interpretazione                                                  dell’episodio in chiave edipica,

come angoscia di castrazione) si intraveda quel riferimento a “qualcosa che nello psichismo dovrebbe restare nascosto e che emerge attraverso la coazione a ripetere”, che verrà poi ripreso e sviluppato nei testi successivi.

A tutto questo Cimino    non esita a dare il nome che gli compete: il desiderio preistorico, il “soffio oceanico” è

per definizione, in quanto desiderio di unione definitiva, di riassorbimento nell’oceano materno e quindi di azzeramento di tutte le tensioni, contrassegnato dalla pulsione di morte.

Ed è a questo punto del suo percorso che l’autrice introduce per la prima volta, attraverso le considerazioni relative al saggio sulla caducità e alla conversazione di Freud con l’allora giovane poeta Rilke, il concetto che approfondirà nelle seconda parte del libro di “posizione femminile” come capacità di apertura estatica al mondo e dunque unica possibile via d’uscità dalla vulnerabilità estrema che il vacillamento “tra la nostalgia non più sanabile (della Cosa materna) e la riluttanza dolorosa a farne il lutto” genera negli esseri umani.

Ma presto riprende il filo del suo discorso per seguire l’interrogativo freudiano sul quanto e        come le

vicissitudini del rapporto con l’Altro (Altro che, sia ben chiaro, è presente fin dall’inizio e nella relazione col quale il soggetto si costituisce,                                 e ciò sia detto con buona pace di quanti ancora polemizzano contro la teoria

pulsionale  freudiana  ritenendola  essenzialmente  solipsistica)  originariamente  segnato  dall’invidia  e  dalla rivalità, ma necessariamente sottomesso,                       in virtù della necessità del legame sociale alle esigenze della

convivenza e della civiltà, possano costituire per l’uomo l’impedimento al conseguimento di quel piacere che costituisce il suo obiettivo primario. Non è così, ci dice il Freud inseguito da Cimino attraverso il corso dei suoi pensieri e dei suoi scritti, non è l’accettazione della castrazione che l’accesso alla vita sociale richiede ciò che determina l’infelicità umana. Non esiste una condizione di grazia originaria; ciò che rende infelice l’uomo è, per citare ancora l’autrice, “qualcosa ( che Freud stesso riconosce come) insito nella stessa natura umana”.

In una molteplicità di testi freudiani, specie quelli successivi alla pubblicazione nel ’20 di Aldilà del principio di piacere,   Cimino ci addita i passaggi che più significativamente sottolineano la sopravvenuta consapevolezza

che è nel gioco dialettico tra le pulsioni aggressive orientate da Thanatos e quelle libidiche    tese a ricomporre

il tessuto della povera felicità umana, il segno di quella lotta tra Eros e Thanatos che segna irreparabilmente la condizione del vivente .







E’ soprattutto negli scritti più speculativi, meno orientati magari alla dimostrazione di una ipotesi preposta, che Cimino intravede e sottolinea per noi il nascere di un pensiero che si interroga sugli aspetti più oscuri dell’attività  pulsionale,  quale  l’inesorabile  ripetitività  del  suo  ripresentarsi,  o  il  suo  lasciare  intravedere, attraverso i perturbamenti che comporta, la riemersione inquietante di un rimosso antichissimo e familiare, il fantasma del ritorno al grembo materno, l’antica casa dell’uomo.

La  rilettura  che  l’autrice  fa  del  testo  su  La  Negazione,  testo  tanto  sintetico  quanto  ricco  di  inesauste implicazioni , ci porta a intravedere con inusuale chiarezza come l’avvento del simbolo della negazione evidenzi      definitivamente che è dalla pulsione di morte, nel suo intrecciarsi a un Eros che pure da essa trae

origine, che nasce quell’attività di pensiero che contraddistingue e salva la condizione umana. Da lì un interrogativo etico sulla funzione della psicoanalisi come attività che sostenga, alimenti, inventi il lavoro di Eros, a patto di partire dalla consapevolezza non rimossa che “la mort conduit l’attelage”, come il mirabile racconto di Marguerite Yourcenar ci ricorda.

Ma è soprattutto alla luce degli interrogativi lasciati aperti da Analisi terminabile e interminabile che Cimino mette a fuoco l’altra questione, che pure ha percorso in filigrana l’intero cammino del suo testo,                                     quella

appunto della femminilità,    e apre alla parte più speculativa della sua riflessione.

Di fronte all’inesorabile ripresentarsi, in una molteplicità di casi, di tutto ciò che si oppone alla guarigione analitica,  in  nome  di  un  arroccamento  dell’Io  su  posizioni  difensive  che,                                       ancorchè  anti  economiche  e

dolorose, sono entrate a far parte della sua stessa struttura, un Freud vecchio e stanco ma pur sempre in cerca di risposte si interroga ancora una volta sull’inarrestabile potenza della coazione a ripetere e del prevalere della pulsione di morte a dispetto di ogni tentativo di Eros di contrastarne e rallentarne il cammino.

Le risposte che si dà,    dice Cimino, sono insoddisfacenti per lo stesso Freud, che infatti dichiara la resa a fronte

di ciò che chiama la “roccia basilare” e che rimanda alla differenza tra i sessi e all’incapacità di ciascuno di essi di accettare (con conseguente                              rimozione) “l’elemento del sesso opposto”l’impossibilità di sfuggire al circuito

della ripetizione.

Ed è qui che l’autrice, forte di una lettura approfondita del pensiero Lacaniano, propone la sua    ipotesi di una

possibile    via d’uscita dall’abbraccio mortale della pulsione che, nel suo    dispiegarsi più sfrenato travolge gli

esili avamposti di Eros, e chiama in causa il fallo come significante universale per entrambi (o forse dovrei dire tutti) i sessi, sviluppando il concetto di “posizione femminile” non solo come capacità di accettazione della castrazione, ma, ben più radicalmente, come abbandono di tutte le “insegne”, per altro immaginarie, che al significante fallico sono connesse e assunzione di uno sguardo sul mondo “che nulla prefigura ma solamente

accoglie”.

Non basta fare il lutto insomma, potremmo dire parafrasando ancora una volta l’autrice, dobbiamo anche accettare di “patire la nostalgia”, ma è appunto questa oscillazione la condizione perchè, pur nella precarietà che ci abita e in cui abitiamo, si apra lo spazio ove possano edificarsi nuove e più evolute forme di soggettività.

Certo l’auspicio è audace e il cammino arduo, ma Cimino, analista scomoda in una scomoda psicoanalisi sembra volerci dire                     che, oggi forse    più che mai, in tempi di imperante conformismo, è con    tali questioni    che la psicoanalisi è chiamata a cimentarsi se non vuole

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