Commento al libro di M. Balsamo, André Green, Feltrinelli, 2019
AIPPI, Roma, 11 maggio 2019
Aurora Gentile
Prof. Green, lei rimane, a dispetto del tempo che passa, un uomo appassionato al suo lavoro, delle sue idee.
«Sono soprattutto sensibile alle persone che rimangono vive, che continuano ad appassionarsi alle cose. Ho avuto quattro figli, una vita normale, nel senso conforme alla mia personalità. E continuo a essere appassionato, pur senza aver fatto cure di ringiovanimento, faccio a malapena un po’ di ginnastica! Ho combattuto per le mie idee e ho scelto, sin dagli inizi, di essere un analista a tempo pieno, dedicando a questo molto del mio tempo. Gli psicoanalisti sono artigiani, lavorano a cottimo e vivono veramente ed esclusivamente del prodotto del loro lavoro e non di altro. È vero che ho scritto libri, tanti, perché, dopo la pesante costrizione del lavoro psicoanalitico, il lavoro intellettuale ha qualcosa di distensivo. Oggigiorno, invece, fra gli psicoanalisti ci sono molti burocrati: persone che fanno il mestiere ma che non sono certo appassionati. È facile assumere l’aria di psicoanalista, invece, è difficile esserlo. Per lo più si tratta di aggiungere una piuma al cappello!»
Pensa che si potrà curare questo male della contemporaneità?
«Curare? Ma lei scherza! Loro sono contenti: è il modello generale».
(Intervista ad A. Green di Manuela Trinci Sentieri erranti, maggio 2010)
«Uno dei risultati delle mie diverse analisi è stato di costatare, après-coup, quanto avessi messo nei miei lavori elementi, non biografici, ma costitutivi della mia struttura. Questo spiega perché io mi sia interessato a certe costellazioni piuttosto che ad altre, e anche in termini di psicoanalisi applicata, a certe opere piuttosto che ad altre» (Green 1990, Uno psicoanalista molto impegnato, 23). Il percorso teorizzante di André Green è il percorso di un pensiero clinico il cui compimento è in presa diretta con le sue connessioni inconsce, come dichiara lui stesso. Balsamo le chiamerebbe le intime e profondissime predilezioni, o come le chiama Freud le oscure preferenze soggettive, a proposito dei nuclei passionali di ogni discorso, per dire che le nostre certezze teoriche non dipendono soltanto dalla loro articolazione con la clinica, ma che esse riprendono a un altro livello ciò che Piera Aulagnier definiva le questioni fondamentali di ogni analista, ciò che definisce il polo passionale della teoria e caratterizza l’aspetto identitario della stessa teoria.
La lettura di M. Balsamo dell’opera di Green ci parla anche di Balsamo come erede di questa tradizione “Eredi rappresenta il tentativo di pensare in modo nuovo ai grandi autori, pensatori, intellettuali e artisti, su cui spesso si fanno lunghe biografie o studi accademici. Ogni intellettuale ha fra questi uno o più maestri, ‘padri simbolici’, di cui si sente erede. Questa eredità non è tanto e solo nelle teorie e nei concetti, ma è un nucleo di vita intellettuale che pulsa e parla oltre le distanze di tempo, spazio e culture”. Siamo dunque convocati sin dall’inizio sulla scena della trasmissione e della filiazione. Il contributo di M. Balsamo è interessante anche per vedere come gli analisti lavorano queste problematiche, secondo quello che potremmo definire l’asse dell’identificazione, con il rischio di identificazioni alienanti a una figura di maestro o a una teoria feticizzante, o della disidentificazione, che può anche aprire prospettive nuove e sostenere il suo impegno nel lavoro intrapreso. Il libro di Balsamo dunque è interessante anche per esplorare il rapporto che ci può essere tra teoria e soggettività.
“Io avrei detto piuttosto“, è l’esordio di una supervisione del nostro Autore con Green, con cui si apre questo libro. Con le parole di Green, “è l’offerta di uno spazio areato, che non è quello di “questo non vuol dire niente”, nè quello del “questo vuol dire questo”, ma quello di “questo potrebbe voler dire questo”, vale a dire lo spazio della potenzialità e dell’assenza, perchè, come aveva visto Freud per primo, è nell’assenza dell’oggetto che si forma la sua rappresentazione, fonte di ogni pensiero.” (Green 1974, L’analista, la simbolizzazione, l’assenza, NRP). E quindi già in apertura Balsamo confida al lettore psicoanalista o studioso della psiche, il suo desiderio di tracciare una mappa essenzialmente reticolare, nè cronologica, nè per grandi temi, che cerca connessioni, correlazioni, nodi, secondo una processualità propriamente psicoanalitica, valorizzando il conflitto, più che tentare, come scrive, uno sforzo dottrinario di unificazione.
I punti che a mia volta ho ritagliato all’interno di questo lavoro complesso saranno semplicemente delle segnalazioni lungo il mio percorso di lettura. Un primo effetto è stato quello di pensare che queste riflessioni potevano esserci di grande aiuto nella nostra pratica clinica, nel caso di pazienti particolarmente problematici, e che si presentano come dei veri e propri enigmi. In queste situazioni, leggere come Balsamo ci propone di affrontarle, come il suo pensiero raccolga gli infiniti travestimenti e sfumature del “lavoro” in seduta e fuori, vale a dire il suo pensiero in movimento, fa davvero sentire meno soli. E’ questo, il pensiero clinico, scoperto da Green, cioè la razionalità specifica derivata dall’esperienza pratica, la cui caratteristica è di determinare in chi ascolta, indipendentemente dal fatto che si parli o no di clinica, lo sviluppo di una rete associativa che interroga il nostro stare con i pazienti, le vicende che abbiamo vissuto e la possibilità di correlare diversamente punti di vista consolidati, mappe informate della propria storia, che rendono conto dell’impossibilità di colmare lo scarto teorico-pratico, di ridurre la distanza che ogni volta si crea fra l’esperienza e il tentativo di dirla e di comprenderla.
Semplificando, schematizzando, probabilmente sulla base di scelte molto soggettive all’interno di un testo ricchissimo, ecco allora i punti che vi propongo, a volte con le stesse parole di Balsamo, la cui scrittura è non soltanto critica, ma anche particolarmente espressiva:
1) Green come un pensatore delle connessioni, come colui che più di altri sembra aver avvertito l’esigenza di ricomporre in una rivisitazione feconda del lascito freudiano e in una passione combattiva, i successivi modelli psicoanalitici, dialogando soprattutto con Lacan, Bion, Winnicott e l’insieme della letteratura psicoanalitica internazionale. Cito:
“Correlare, distinguere, sviluppare e soprattutto mettere in evidenza i problemi del dopo Freud, il ruolo che assume il pensiero e le condizioni perché esso possa darsi quando prevale lo slegamento libidico, la costruzione dello spazio potenziale dell’essere e la transizionalità degli scambi analitici, il linguaggio nella cura, seppur ripreso alla luce dell’eterogeneità del significante e del ruolo di rappresentazione dell’affetto, la dimensione del negativo e la forza delle pulsioni distruttive, sono questi alcuni degli assi attraverso cui leggere lo sviluppo del pensiero di Green. La cui principale articolazione si snoda dunque intorno alle conseguenze derivanti dalla seconda topica freudiana, che impone una diversa concezione dello psichico, non più articolato unicamente al sogno, ma all’atto, alla scarica, al ruolo delle pulsioni di morte e alla dimensione dell’irrappresentabile, al diverso ruolo del negativo che non definisce più, per l’appunto, il “no” alla perversione o un fattore strutturante dello psichico mediante la rimozione, ma un’attività distruttrice del pensiero. Green inoltre ha riconosciuto l’importanza di una teoria del funzionamento mentale del paziente e della coppia analitica, fattori che assumono un ruolo ormai centrale nella psicoanalisi contemporanea”.
2) Il lavoro di Green implica una revisione della teoria, perchè l’analista deve prendere in conto la risposta dell’oggetto nello sviluppo dei processi psichici. Le correlazioni fra le diverse linee di sviluppo, l’impatto e gli intrecci fra l’intrapsichico e ciò che si svolge nell’incontro fra due psichismi, l’intrasoggettivo, indicano l’importanza di considerare – insieme – pulsione e oggetto. Occorre rilevare tuttavia che quest’articolazione suscita risposte teoriche molto diverse, piegate sull’uno o sull’altro dei due poli, mentre Green insiste, nell’esame della causalità psichica, per la loro non distinguibilità. Se in Freud sembra prevalere il polo pulsionale, è perché, osserva Green, “si è tirato indietro davanti alla costruzione di una causalità in coppia”, anche se la relazione d’oggetto sembra voler tirare la coperta interamente dall’altra parte, facendo a meno dell’intrapsichico.
3) La valorizzazione del potere creativo dell’inconscio.
Ma, scrive Balsamo, Green ha anche evidenziato il potere creativo dell’inconscio, cioè la sua capacità di trasformare, ritrascrivere anche al di là della storia specifica di quel soggetto, o la forza dei traumi che ha potuto subire.
Green osserva, scrive Balsamo, che “In Freud la scelta di privilegiare il polo pulsionale nasce dall’esigenza di non trascurare il potere creativo dell’inconscio, la sua capacità di metabolizzare, trasformare la realtà per assumerla in maniera singolare. Inversamente, confrontati ai casi più gravi, corriamo il rischio di cadere in una tentazione “fenomenologica”, da intendersi come il cedimento alla rappresentazione di un potere traumatico e distruttivo dell’oggetto che ha totalmente esaurito la capacità creativa dell’inconscio. Da qui la necessità di ritrovare anche in quello che ci appare immobile, ripetitivo, congelato, una dimensione generativa del possibile, contenuto in ogni storia, operare una trasformazione positiva del negativo. Per Green (e per Balsamo) l’inconscio è un luogo di creazione.
4) Il rapporto struttura-storia.
Per introdurvi a questo punto vorrei proporvi un esergo che Balsamo ha posto all’inizio del capitolo primo di un altro suo lavoro, Ascoltare il presente, uscito per Mimesis ai primi di marzo. Il capitolo s’intitola Il già là e il non ancora ed ecco l’esergo:
“La storia non è poi /La devastante ruspa che si dice:/ Lascia sottopassaggi, cripte, buche e nascondigli. C’è chi/ sopravvive” (tratto da La storia di Eugenio Montale).
“Come osserva Green, dobbiamo riconoscere che la complessità e la varietà della comunità psicoanalitica pone ormai l’effettiva divergenza delle ipotesi definitorie (nella griglia di Bion sono asserzioni, definizioni, che delimitano i fenomeni, nominandoli) e che questa diversificazione è sostanzialmente relativa al punto “scelto” dalla teoria per pensare il rapporto struttura-storia, intendendo per struttura l’insieme delle forme variabili dello psichismo organizzate intorno all’asse stabilità/instabilità, e per storia il complesso sviluppo delle temporalità inerenti alla costituzione dello psichismo”. Questo è un tema a mio avviso centrale nella ricerca di M. Balsamo, interesse attestato dalla sua vasta produzione di articoli e libri sulla questione dell’anacronismo, quindi dei resti e delle tracce, il valore delle pratiche traduttive, il rapporto tra eredità e trasmissione, il rapporto fra passione e storicità. “Ritenere che il riferimento alla storicità del soggetto sia fare ricorso a un fuoricampo analitico, un’operazione che negherebbe l’importanza di ciò che si svolge nel qui e ora della stanza d’analisi è fortemente discutibile”, scrive Balsamo, ma c’è da intendersi. “La storicità non è il racconto di ciò che accadde, né è rintracciabile solo nella costruzione delle modalità simboliche grazie alle quali il soggetto ha potuto utilizzare le risposte e i messaggi dell’altro, nei modi di relazionarsi a esso, nelle dimensioni rappresentative che sono sempre debitrici delle teorie già esistenti”. Nessuna storia è visibile, nel prisma fornito dalla soggettività, se non nella sua necessaria deformazione e traduzione. Ma Balsamo aggiunge anche che “Essa è rintracciabile, perfino nella costituzione del principio di piacere che trascrive e seleziona, per quello specifico individuo, la realtà degli eventi e che ingloba, nella sua genesi, nel suo funzionamento, gli interdetti, i dinieghi, i patti narcisistici che legano il soggetto all’altro, le offerte di futuro o le tracce di desiderio che hanno caratterizzato la storia dei suoi incontri”, valorizzando così il ruolo dell’oggetto nell’orientare il principio di piacere stesso. Ne deriva, scrive Balsamo, l’importanza continuamente data da Green, all’oscillazione fra simmetria e asimmetria nel campo analitico. “Iscrivendoci nel progetto di un’assoluta complementarità, come ad esempio è accaduto storicamente col fenomeno dell’analisi “reciproca” di Ferenczi, si realizza l’illusione di poter riandare al momento fondativo (e distruttivo), delle dinamiche soggetto-oggetto per depurarle da ogni movimento di slegame e ponendo l’analista in una posizione materna arcaica, passando dal come se alla realtà dell’oggetto”. M. Balsamo ha messo in guardia gli analisti dall’accogliere una modalità di relazione col paziente fondata sul qui e ora, e anche in quest’ultimo lavoro, ricorda come Green abbia sempre richiamato anche l’altrove e l’allora in ogni relazione analitica. Cito Green: “Il transfert è sempre parlare a qualcuno che non è qui, e non può essere confuso con la persona a cui ci si rivolge. Il destinatario del transfert è colui al quale si parla, l’attuale, ma di una virtualità che è da riconoscere, al tempo stesso autentico e creato artificialmente. Si tratta sempre di altra cosa di ciò che si dice. Tutto ciò che è indirizzato riguarda un altro e un altro tempo” (Green 2011, Psicoanalisi e teoria del linguaggio, in Du signe au discours). Green sottolinea un duplice aspetto del transfert: il transfert sulla parola: il lavoro intrapsichico, e il transfert sull’oggetto: lavoro intersoggettivo. “Si trasforma ciò che viene in mente in un dire e lo si dice a qualcuno a cui si parla e che vi parla, ma di cui s’ignora l’identità nascosta”. L’espressione di Green “La parola analitica fa sortire dal lutto il linguaggio”, intende proprio dire che in psicoanalisi il linguaggio ridona all’altro la figura degli oggetti del desiderio che la rinuncia ha relegato in secondo piano. “Ogni analisi, scrive Green, rinvia a un altro che non è il soggetto, ma l’altro dell’oggetto. Così è assicurata una triangolazione strutturante”.
5) Il valore della follia
È la follia, che protegge dalla psicosi. “La follia è legata alle vicissitudini dell’Eros primordiale, in sempiterno conflitto con le pulsioni distruttive. Quando l’Eros esce vincitore dal combattimento, ossia quando la passione che pervade l’Eros giunge a legarsi, la psicosi è scongiurata”. L’origine della follia per Green, scrive M. Balsamo, è da ricercarsi nell’articolazione tra una dimensione originaria del bambino (la sua passione per il corpo-ambiente della madre che permette di articolare/oggettualizzare il pulsionale interno) e quella correlativa della follia materna “normale”, la credenza nell’oggetto unico e insostituibile che madre e figlio condividono nell’amour fou. Si tratta dell’incontro di due passioni, quella dell’infans a sua volta attivata dall’oggetto materno. Questa visione riorganizza il quadro concettuale della soggettività umana intorno alla coppia follia/psicosi. Se tutte le vicissitudini di Eros “sono intaccate da un potenziale di follia che costituisce il nucleo delle loro manifestazioni”, com’è possibile allora escludere dalla realtà clinica, di qualunque tipo si tratti, la presenza di una passione irrinunciabile per il soggetto, tale da spingerlo a intraprendere percorsi anche drammatici pur di poterla realizzare o quantomeno esprimere? E così, invece di caratterizzare la follia «come un disordine della ragione, bisogna al contrario sottolineare l’elemento affettivo, passionale, che modifica la relazione del soggetto con la realtà, sceglie un oggetto parziale o totale, si attacca a esso più o meno esclusivamente, riorganizza la percezione del mondo attorno ad esso, circondandolo di un’aura che lo rende unico o insostituibile. Per un orecchio esercitato, anche nella più banale delle nevrosi arriva un momento in cui si manifesta la sensazione di avere a che fare con un funzionamento folle». La follia privata pone la questione del limite, e quella dei casi-limite, “al limite dell’analizzabile”, cui la Nouvelle revue de Psychanalyse, diretta da J.-B. Pontalis, invitava a pensare sin dal 1974 in Aux limites de l’analysable, un numero della rivista cui parteciparono tra gli altri a partire da un articolo di Ferenczi, Fairbairn, Bion, Winnicott, Segal, Mc Dougall e Green. “Il limite della follia non è una linea, ma un vasto territorio in cui non esiste una divisione precisa che permetta di separare la follia dalla non follia”. Dobbiamo riconoscere un posto all’elemento passionale, affettivo dell’attività psichica, la cui forza è tale che esso può utilizzare tutte le risorse dell’intelletto per raggiungere i propri fini, servendosi delle possibilità che gli offre una pluralità di logiche. Ma la passione non è una cosa negativa perchè la passione è la vita stessa: non c’è niente da dire sulla follia poichè essa è la cosa più riconoscibile al mondo: bisogna solo vedere se è costruttiva o distruttiva (Green, Psicoanalisi degli stati limite, p. 52).
La questione dunque è come intendere quei pazienti al limite dell’analizzabilità, che non possono utilizzare il setting classico come un ambiente facilitante, al punto da sentirlo addirittura come qualcosa che si svolge contro di loro. Sentimento che può essere sentito dal paziente, ma soprattutto dall’analista, situazioni in cui l’analista deve fare un’offerta simbolizzante che possa aiutare il paziente a uscire da quella configurazione che Green ha chiamato “posizione fobica centrale”, disposizione psichica di base, che s’incontra frequentemente nella cura di certi stati-limite, che è il ricorso a meccanismi automutilanti del pensiero, per far fronte a devastanti minacce interne. Il lavoro dell’analista consiste allora nel tentare di ripristinare nel soggetto la follia dell’inconscio.
6) L’interesse per il materno
Vale la pena di notare, scrive Balsamo, osservando i titoli di tanti suoi lavori, il notevole interesse di Green per il materno.
Uomo dell’affetto e delle passioni, Green ha coniato l’espressione “follia materna”. Con questa espressione, egli ha di mira tre punti: la fase incestuosa associata alla relazione primaria alla madre, i desideri incestuosi della madre per il bambino considerati come una relazione passionale o anche una follia materna, la presenza di una dimensione fondamentalmente incestuosa nella più ordinaria delle relazioni madre-bambino e correlativamente l’esistenza di follie normali, vale a dire stati normalmente passionali nella relazione madre-bambino. Green ha proposto una sua metapsicologia del legame primario, facendone il fondamento dello sviluppo psichico. La nozione di struttura inquadrante, concepita come l’interiorizzazione dell’oggetto primario grazie alla sua allucinazione negativa, è una struttura che si forgia nel corpo a corpo del neonato con la madre che lo prende tra le braccia e costituisce lo spazio potenziale per le future rappresentazioni. La struttura inquadrante è una mediazione necessaria per attenuare gli effetti dell’assenza della madre e la sua integrazione nell’apparato psichico: l’amore per l’oggetto e dell’oggetto (il vuoto osserva Green non è percepito grazie all’investimento libidico dello spazio psichico) permetterà la costituzione di un sistema di accoglimento e di paraeccitazione rappresentativo. Ed è così che la presenza materna si costituisce nello psichismo, nella sua stessa assenza. Se la presenza della madre è indispensabile per lo sviluppo del bambino, la separazione dall’oggetto, e dunque la perdita della sua percezione, è necessaria perché avvenga il riconoscimento di sé. Seguendo l’evoluzione del pensiero di Green, possiamo dunque comprendere, a partire dall’allucinazione negativa e la necessaria perdita dell’oggetto, anche il disinvestimento del bambino da parte della madre che conduce alla problematica del negativo. La struttura inquadrante è appunto una struttura e non una funzione. La differenza è importante nella misura in cui una struttura implica una costruzione stabile, durevole, un insieme dalla coesione tale che non può essere modificata senza avere un effetto su tutte le altre. E’ percorrendo queste riflessioni che Green elabora ciò che lui chiama “la madre morta”, un insieme le cui caratteristiche sono individuabili nel e dal transfert, in cui il materno come struttura inquadrante perde la sua funzione essenziale. Un materno in negativo che caratterizza un lutto inspiegabile. Non un regno delle ombre tra vita e morte, come scrive L. Abensour, ma la morte nella vita, il buco, il niente. Ciò che egli chiama “la madre morta”, emanazione dell’esperienza clinica del transfert, corrisponde a un fallimento e deriva dal disinvestimento del bambino da parte della madre e il confronto del bambino con “l’ombra dell’assenza”. (Green, La madre morta, in Narcisismo di vita, Narcisismo di morte).
E’ assolutamente rilevante che nella concezione greeniana, il ruolo del padre non si limita alla triangolazione edipica, ma va pensato all’interno di una terzeità fondamentale (“una triangolazione generalizzata a terzo sostituibile”), i fondamentali processi terziari, che Balsamo riconduce all’influenza del pensiero di J. Lacan, di cui Green seguì i seminari per poi distaccarsene, intorno alla fine degli anni 80.
7) Una teoria del pensiero
Nel capitolo finale, Balsamo prende in esame gli elementi differenziali della psicosi bianca e il rapporto tra sapere e teoria, a partire dal notevole lavoro di A. Green con J.-L. Donnet, scritto nel 1973, col titolo L’enfant de ça, il cui punto di partenza è l’esperienza prolungata di un tipo di pratica di “consultazione” psicoanalitica nel quadro di un servizio di psichiatria generale di Parigi. In questo lavoro si discute appunto il rapporto del sapere con la teoria. “Da una parte c’è un sapere che preordina il campo analitico, lo preinterpreta, ne predispone i parametri di ricevibilità e di ascolto, dall’altra questo stesso sapere deve essere messo in latenza per permettere un’apertura del campo analitico, senza trascurare l’effetto di après-coup della teoria sull’ascolto, nel dare cioè un senso possibile a ciò che si è ascoltato fino ad allora”. I paradossi cui è sottoposta l’attività dell’analista sono allora innumerevoli.
Vale la pena riprendere qui una storia clinica riferita da J.-L. Donnet in un articolo Le psychophobe del 1982 (ripreso nella raccolta del 2009 L’humour et la honte, puf), citato da Balsamo. Roland, 13 anni e mezzo alla prima consultazione, è inviato a Donnet per la gravità e la ripetitività quasi diabolica dei suoi comportamenti antisociali. Anche in questo caso, come per quello esplorato nella psicosi bianca, è importante osservare la complessità del rapporto del terapeuta con il paziente. Ecco come Balsamo riprende il caso:
“Per Donnet appare rilevante, nella costruzione del caso clinico, la scoperta grazie alla madre del paziente, di un incesto realizzatosi fra lei e il proprio padre poco prima che la donna si sposasse e di cui non ha mai potuto parlare, “né pensarvi” e che lei racconta en passant. Ciò che si evidenzia è che l’analista sente il bisogno imperioso di poter rivelare tutto ciò al giovane paziente, che non sa nulla dell’incesto subito dalla madre alla vigilia delle proprie nozze, nella convinzione che la continua agitazione, il comportamento antisociale del ragazzino e la sua impossibilità di pensare abbiano una relazione con questo segreto e con lo spazio che esso occupa nella mente della madre. E tuttavia Donnet sottolinea come questa connessione stabilisca innanzitutto l’altro come luogo del trauma, in una sorta di paradossale replica dell’incesto nella teoria, in modo che la stessa teorizzazione finisce per diventare come un effetto di una tentazione incestuosa e violante che realizzerebbe l’indistinzione madre-figlio, la loro confusione. Il rifiuto di pensare rifletterebbe allora lo sforzo di individuazione del paziente, poiché la libertà di pensiero passerebbe proprio per questo suo rifiuto di pensare, un tentativo d’instaurare uno spazio protettivo dall’irruzione di un evento indimenticabile e soprattutto indicibile. Insomma l’analista deve guardarsi dal pericolo di precipitarsi verso una conclusione, anche perché, c’è da chiedersi, è davvero la verità della scena accaduta a essere all’origine di tutto, o essa entra a far parte di una complessa serie di eventi di cui non rappresenta che un anello? Ma allo stesso tempo, e inversamente, questo segreto nella mente dell’analista non finisce per essere una replica del segreto materno nei confronti del figlio?”.
“E allora come barcamenarsi tra investimento e disinvestimento, presenza e distanza ottimale, esigenza di pensare la relazione e teoria della medesima, soprattutto quando la relazione non s’instaura o non si mantiene che nella mente dell’analista?”.
Nell’analisi di questo caso, risulta allora illuminato proprio uno degli elementi centrali nel percorso di Green, ma forse anche in quello di Balsamo: il confrontarsi clinico e teorico con forme diverse e paradossali di funzionamento psichico, e il continuo rimettere al lavoro la mente dell’analista per fare fronte a tali problemi, salvaguardando la dialettica teorico-clinica e lo scarto che deve persistere. Come scrive J.-L. Donnet: Possiamo, in un certo senso, descrivere il divenire della teorizzazione psicoanalitica come risultato del lavoro di questa contraddizione (Donnet, Un divan bien temperé, 285).
Ancora un’osservazione. La relazione costante lungo tutta la vita di A. Green e fonte di magnifici testi di critica letteraria, (tra gli altri La lettre et la Mort, passeggiata di uno psicoanalista attraverso la letteratura: Proust, Shakespeare, Conrad, Borges, del 2004, Sortilèges de la séduction del 2005, letture critiche di Shakespeare, Le premier commandement, Joseph Conrad, del 2008, L’avénture négative del 2009, lettura psicoanalitica di Henry James), lo studio che Green ha dedicato ai rapporti tra il testo e l’inconscio (La déliaison), e all’esplorazione della scrittura da parte della psicoanalisi, ci rammentano che per Green la letteratura è stata fonte d’ispirazione e di ricerca, una delle sue “passioni”. Basti pensare alla lettura parallela dell’odissea freudiana e della Ricerca del tempo perduto, che mette in luce una prossimità singolare del comune rapporto con la memoria e con il funzionamento del ricordo, ai punti di emergenza e ai naufragi nel tempo intemporale della vita psichica. L’analista è spesso lettore di opere letterarie. Queste letture suscitano in lui movimenti affettivi e processi di riconoscimento di espressioni che lui non esita a ricondurre all’inconscio. Green riteneva appunto che il lettore sia l’analizzante del testo. Anche Balsamo nella sua analisi del complesso della madre morta di Green, che ha assunto un valore paradigmatico nello studio della clinica contemporanea, si rivolge a Roland Barthes, per la sua descrizione efficace di questa condizione, alla voce Fading nei “Frammenti di un discorso amoroso”. Barthes descrive appunto la “prova dolorosa con la quale l’essere amato sembra sottrarsi a qualsiasi contatto, senza neppure rivolgere questa indifferenza enigmatica contro il soggetto amoroso o pronunciarla a beneficio di chiunque altro, sia questo il mondo o un rivale (…) Il fading dell’oggetto amato è il terrificante ritorno della Madre cattiva, l’inspiegabile ritiro d’amore”. La letteratura propone dei modelli della realtà psichica. Poeti e scrittori offrono i loro tentativi personali di produrre rappresentazioni del nostro funzionamento psichico, tentativo che merita di essere rispettato e studiato in quanto tale. Se abbiamo tempo, mi piacerebbe discuterne con il nostro Autore.